venerdì 12 ottobre 2012

Fioretti, lo Spielberg del basket

dal Corriere BG - Definizione data da Dan Peterson al video analista per l'Armani Jeans e per la Nazionale. «A Bergamo il calcio soffoca il resto degli sport», le parole del trentanovenne

Mario Fioretti
«Well kept secret». Negli Stati Uniti vengono etichettati così quei talenti che meriterebbero di essere più conosciuti. Se parliamo di basket italiano, Mario Fioretti è sicuramente uno dei «segreti meglio custoditi» del movimento.
Nato e cresciuto a Bergamo, 39 anni, da un decennio è uno dei gangli vitali dell'EA7 Emporio Armani Milano, la società più titolata d'Italia. Sulla sua carta d'identità c'è scritto assistente allenatore e video analista - ruoli che ricopre anche nella Nazionale azzurra - ma aldilà degli incarichi formali, Fioretti è riconosciuto da tutti come una delle persone più preparate ed affidabili della pallacanestro. Una reputazione che però è inversamente proporzionale alla sua esposizione mediatica.
Umile, determinato, stakanovista: ad inizio 2011 Dan Peterson, tornato alla guida dell'Olimpia, aveva paragonato Fioretti a Steven Spielberg per la sua capacità di analisi attraverso i video. Ricordando quell'esperienza il coach statunitense ora aggiunge: «Mario è un vero genio, un grandissimo insegnante dei fondamentali. Non è un caso se Danilo Gallinari si è preparato per l'NBA con lui. È anche una persona molto leale».

Fioretti, ora appartiene all'elite del basket, ma dove è iniziata la sua carriera?
«Dall'Intervites Bergamo, la società del dottor Keller che qualche anno dopo si è sciolta. Studiavo all'università, ero un playmaker mediocre, da Serie C (??!!). Ho iniziato ad allenare i bambini quasi per caso e ho capito pian piano che era la cosa che volevo fare nella vita».
Quali sono suoi i legami attuali con il basket bergamasco?
«Siamo talmente in pochi a far pallacanestro a Bergamo che conosco tutti. Alcuni miei amici e mio cognato gestiscono il Lussana, sono molto legato a quella realtà».
Verrebbe da ipotizzare un suo futuro alla guida di Treviglio...
«Io e Vertemati, l'attuale allenatore, siamo stati negli Stati Uniti insieme. Il direttore sportivo Massimo Gritti è mio amico da sempre. Negli ultimi anni è capitato che i dirigenti mi chiedessero "Cosa hai intenzione di fare?" ma non c'è mai stata una vera proposta».
Come mai ci sono pochi giocatori bergamaschi di alto livello?
«Ci sono buoni giocatori nelle serie minori e nel futuro grazie alla BluOrobica ce ne saranno ancora di più. La pallacanestro a Bergamo non ha mai avuto un peso rilevante come da altre parti. Nel nostro territorio l'Atalanta è quasi una religione, non so se esista un altro posto in Italia dove c'è una squadra così sentita. La base non è così ampia da poter pensare di produrre un giocatore forte».
Decima stagione a Milano, quale fu la scintilla iniziale?
«Nel 1999, subito dopo la laurea, sono volato negli Stati Uniti e ho avuto la possibilità di fare esperienza per 6 mesi con Bob Knight. Il coach di Indiana University era amico di Mario Blasone che nel 2003 mi diede la possibilità di avere un colloquio con Attilio Caja e Gino Natali, allora allenatore e general manager di Milano».
E come li convinse?
«Pensavo che non mi prendessero, Caja si arrabbiò perché alla domanda "Cosa pensi di poter fare all'Olimpia?" io risposi che volevo dare una mano ma lui ribattè "Tu non sai fare niente, sei qui per imparare". Ora però è l'allenatore a cui sono più legato degli otto con cui ho lavorato qui».
Un episodio emblematico dei 10 anni in biancorosso?
«Il primo anno, dopo esser andato a muso duro da un giocatore, Coldebella - uno dei senatori della squadra - mi disse: "Bravo, hai fatto bene, ti aiutiamo noi". Le squadre funzionano quando gli atleti sono esigenti verso se stessi e verso gli altri».
È l'unico sopravvissuto alle tante rivoluzioni tecniche e societarie.
«Ogni tanto mi chiedo perché, sono andate via tante persone di valore e io sono rimasto. Spero che sia perché ho lavorato bene».
Assistente per sempre o il progetto è quello di diventare capo-allenatore?
«Fino a qualche anno fa lavoravo anche nel settore giovanile e pensavo mi bastasse. Ora invece ho maturato l'idea di poter fare un passo avanti. Non so ancora quando però... Dove mi vedo tra 10 anni? Ad allenare, il sogno è quello di farlo qua all'Olimpia. È la mia seconda famiglia».
Parole di una persona che vive il basket in maniera totalizzante.
«Sì, è il mio limite. A Cenate ho una moglie e due figlie, ogni tanto ci sono talmente dentro che faccio qualche errore in quel senso. Non vedo mai meno di 10 gare a settimana. Il problema è che voglio fare bene una cosa che mi piace. Non è mai successo di venire in palestra contro voglia. Mai, neanche una volta, in dieci anni».
Michele Gazzetti

la frase in rosso l'ho sottolineata io...playmaker mediocre??? Ho appena rimproverato Mario al telefono!!

Duca

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