articolo di Riccardo Masagna che racconta la storia discografica di Mark Lanegan dal sito we love radio rock
Mark Lanegan era un misfatto del grunge, uno sbandato del folk-blues, un tossico dei bassifondi. Portava tutti i suoi anni stampati in faccia. La pelle era gonfia eppure stirata come un lenzuolo. Gli occhi sottili e ambrati ti trafiggevano. Anche la folta capigliatura sembrava filata dalle mani del tempo e martellata da una tragica esistenza. Eppure negli ultimi anni trasudava consapevolezza. Quella del rock’n’roll è una strada lunga, tortuosa, piena di inganni. Poche paia di occhi ti guardano quando arrivi, cento quando stai per andartene. Se gli avessero preconizzato che a quasi sessant’anni avrebbe ancora fatto questo mestiere, si sarebbe messo a ridere. Eppoi c’era la voce, profonda, irregolare, che invocava lo spirito di Tom Waits, Johnny Cash e Jim Morrison. Pochi avevano quell’inspiegabile quid nel timbro, emotivo e straziante. Ossessionante, rauca, sorprendente, dilaniante, rabbiosa, dolorosa, oscura, ultraterrena, un tesoro ruvido e baritonale.
Gli Screaming Trees si formarono verso la metà degli anni Ottanta, a Seattle.
Le prime registrazioni ci rivelano un Lanegan più morbido,
nell’intonazione e nella voce, era giovane, pareva che non sapesse
cantare. Gli anni a venire, quelli delle terribili dipendenze,
probabilmente ebbero un forte impatto sulle sue corde vocali, ma suo
padre aveva lo stesso timbro roccioso e io sto sempre dalla parte della
genetica, ma se ascoltate l’EP “Other Worlds” (1985), è difficile credere che il cantante sia lo stesso che ringhia in “A Song For The Dead” dei Queens Of The Stone Age. Tra il 1986 e il 1989, incisero praticamente un album all’anno. “Clairvoyance” l’esordio su Velvetone e tutti gli altri, “Even If And Especially When”, “Invisible Lantern” e “Buzz Factory” per la SST. Si affidarono alla cura di Jack Endino uno che aveva creato il superfuzz dei Mudhoney e dei Tad. Come i Meat Puppets, avevano in formazione due fratelli, uno alla chitarra e l’altro al basso, Gary Lee e Van Conner.
La loro musica era la versione densa e umida dei formicai sonori dei
Puppets. Gary Lee Conner era il chitarrista più frenetico dai tempi di
D. Boon, e, come una corrispondenza visiva con la musica, lui e suo
fratello carambolavano sul palco come rinnegati. Mark era un palo, fisso
e immobile come l’asta del suo microfono. Affinarono quel mash-up unico
di suono classico e moderno, lo stesso clima di Minneapolis, di band
come Replacements, Soul Asylum e Hüsker Dü. La filosofia stracciona del
fai da te: fai un disco, sali sul furgone e vai in tour. Il
romanticismo. Tutto accadde con semplicità. Basta soffermarsi su canzoni
come “Cold Rain” (da “Even If And Especially When”), “Ivy” (da
“Invisible Lantern”) o la meravigliosa tripletta di “Buzz Factory”,
“Where The Twain Shall Meet”, “Black Sun Morning” e “End Of The
Universe”. L’ EP “Change Has Come” fu il classico disco
ponte che denotava la maturazione di un suono. Solido dall’inizio alla
fine, l’EP rappresentò il presagio del potenziale creativo che gli
alberi urlanti avrebbero plasmato nelle successive uscite.
Lanegan
iniziò a scrivere molto materiale, portò le sue canzoni alla Sub Pop e,
con sua grande sorpresa, l’etichetta lo incoraggiò a incidere un album. “The Winding Sheet”
fu registrato in tre giorni e mixato in altri tre. La cover di
Leadbelly “Where Did You Sleep Last Night” è un’interpretazione
ossessionante. Kurt Cobain e la sua versione unplagged arrivarono dopo.
Del 1991 è il primo album con la A&M. “Uncle Anesthesia”
non guadagnò mai i riconoscimenti della critica come fecero altri
dischi del periodo, “Badmotorfinger” dei Soundgarden, “Nevermind” dei
Nirvana e “Ten” dei Pearl Jam. Tuttavia, mostrò il conseguimento di un
picco creativo. “Before We Arise”, che spesso apriva i loro concerti mi
scuote ancora ogni volta che la sento. La voce di Lanegan è il punto
focale di uno scarno arrangiamento, sembra provenire dalle profondità di
una caverna in quel suo oscuro incipit che recita maniacalmente:
“Blackness all around… Can you wake me?”. Alla fine del 1992 uscì il
film di Cameron Crowe “Singles”, la
colonna sonora era un benefit per tutti quelli saliti sul carro dei
Pearl Jam, ma sepolta sul secondo lato c’era “Nearly Lost You” degli
Screaming Trees. Sarebbe stata l’apripista di “Sweet Oblivion”.
Dall’apertura di “Shadow Of The Season”, “Said Lord please give me what
I need/He said there’s pain and misery/Oh sweet oblivion feels
alright”, “Sweet Oblivion” si configurava oscuro nei testi e
nell’indole. La voce di Lanegan si innalzava sopra chitarre eccitate e
una batteria catartica, a dispetto, o forse, a causa di una totale
assenza di luce. Stavano tagliando in profondità le radici del suono
americano. “Dollar Bill” era un incanto, mentre in “For Celebrations
Past” Lanegan come un Jim Morrison dei giorni nostri incanalava uno
spirito antico e magico.
Nel frattempo, pubblicò il suo secondo lavoro da solista “Whiskey For The Holy Ghost”
(1994), sempre su Sub Pop. Gli avrebbe concesso la possibilità di
esplorare qualcosa di diverso. Un disco di intensa bellezza. I testi,
densi di metafore sulla morte, prendono vita dal suo contegno sfocato
che fluttua dalle voragini di un subconscio ossessionato. Un delizioso
compagno per l’ultima chiamata in purgatorio, come scrissero
sull’Entertainment Weekly. Lanegan collauda racconti ubriachi di dolore e
sconfitta con una voce che sussurra tra archi e chitarre acustiche, ma
pesanti, mentre canzoni come “Pendulum” rivelano un narratore con una
portata solo accennata in precedenza.
Mentre lottavano per mettere insieme il dopo “Sweet Oblivion”, registrò e suonò dal vivo con i Mad Season,
il progetto del chitarrista dei Pearl Jam, Mike McCready, del cantante
degli Alice In Chains, Layne Staley, del bassista John Baker Saunders e
del batterista degli stessi Trees, Barrett Martin. Nel 1995 pubblicarono
“Above”, su due brani spiccava la voce di Lanegan, “I’m Above” e “Long Gone Day”.
E ci vollero quattro anni per il seguito di “Sweet Oblivion”. “Dust”
uscì nel 1996. Leggermente più rifinito, ma altrettanto epico. C’è
un’asfissiante abbondanza di blues in gran parte del disco, il prodotto
di una band con una presa costante sulle dinamiche del rock, i sapori
orientali di “Halo Of Ashes” e la squillante “Dying Days” ne sono una
prova inconfutabile. Il gruppo non si scioglierà fino al 2000, ma “Dust”
si dimostrò un appropriato commiato.
Si prese altro tempo per
affrontare i suoi abusi, alcol e eroina. Si diresse al Joshua Tree con
Mike Johnson e una serie di altri musicisti, J. Mascis e Tad Doyle, il
ciccione, per registrare “Scraps At Midnight”. Era il
1998. Dieci canzoni meravigliosamente malinconiche, “Scraps At Midnight”
proseguiva l’inclinazione a pubblicare dischi struggenti, aveva
un’atmosfera unica, il suo baritono crepuscolare ed evocativo ricordava
Leonard Cohen, ma il suo cupo romanticismo suonava con un’autenticità
irraggiungibile. In canzoni come “Waiting on a Train” e “Hotel”
persistono i sommessi vagabondaggi dei dischi precedenti, ma la
redenzione viene dagli accenni di rassegnazione in brani come “Last One
in the World” e “Because of This””.
Lanegan e Johnson nel 1999 pubblicarono l’album di cover “I’ll Take Care Of You”.
Sulla title track di Brook Benton, è un’anima tormentata che farfuglia
promesse di un domani migliore all’ultimo cuore spezzato, ma le
interpretazioni di “Consider Me” di Eddie Floyd e “Together Again” di
Buck Owens, insieme alla spacconeria di “Boogie Boogie” di Tim Rose, ti
lasciano il suo codice morale inciso sulla pelle, la sua padronanza del
pathos.
Nel 2000, quando i Queens Of The Stone Age uscirono con “Rated R”,
la voce di Lanegan era presente su “In The Fade”, “Auto Pilot” e “I
Think I Lost My Headache”, tanto da finire in tour con loro nel 2002 e
nel disco “Songs For The Deaf” dello stesso anno. Porta
una strana spensieratezza nella stramberia biblica di “God Is In The
Radio”, mentre in “Hangin’ Tree” gronda di malvagità appena nascosta.
Il 2001 è l’anno di “Field Songs”.
Fu pubblicizzato sulla stampa come un disco più rock dei precedenti, ma
non rappresentava un significativo cambiamento. Qualche chitarra
elettrica in più non faceva la differenza. Etichette a parte, “Field
Songs” è l’ultimo momento di luminosità prima di andare alla deriva. Ci
sono canzoni di grazia onirica, come “Field Song”, che suona come
Leonard Cohen fino a quando non sfuma in una inconsueta chitarra e
canzoni cariche di elettricità, come la psichedelia contorta di “No Easy
Action”. Nel 2004 “Bubblegum” per Beggars Banquet. È
un disco che oscilla stilisticamente tra ballate acustiche e elettriche.
Duetta con PJ Harvey su “Come To Me”, Izzy Stradlin e Duff McKagan
aggiungono zavorra alla meravigliosamente stanca “Strange Religion” e
Josh Homme infila rabbia nel rock sferragliante di “Methamphetamine
Blues”. Queste canzoni redentrici di lussuria, desiderio e psicosi da
droga sono graffiate e malinconiche, altre volte spaventose. Ma il
momento più toccante dell’album è il canto a due voci che esegue con la
ex intitolato “Wedding Dress”. Nel testo un fugace, confuso riferimento a
Johnny Cash: “We got buried in a fever”. Cash e June Carter cantavano
in “Jackson”, “We got married in a fever”. Un ragazzo tossico poteva
fare più male dell’Uomo in Nero. “Bubblegum” è una vera e propria
rinascita.
Del 2006 il primo degli album nati dalla collaborazione con Isobel Campbell, “Ballad Of The Broken Seas”.
Il cocktail tra il ringhio di Lanegan e la voce eterea della Campbell
funziona a meraviglia. Sono improbabili, ma lui è un coriaceo Lee
Hazlewood e lei fa le fusa come Nancy Sinatra. Combinare il twee pop con
il country più nerboruto, cantando di sesso orale e redenzione per
amore, o rifare “Ramblin’ Man” di Hank Williams, usando una frusta come
strumento di percussione, potrebbe sembrare pacchiano, ma “Deus Ibi
Est”, con il suo raschiare prosciugato, ti porta in un viaggio squallido
e annerito dal tempo. Il giusto equilibrio tra angelo e diavolo,
nonostante il fragile contralto dell’ex Belle & Sebastian, si rivela
più di una promessa che si rinnoverà per altri due dischi “Sunday At Devil Dirt” (2008) e “Hawk”
(2010) dove canzoni ricoperte di polvere e arrangiamenti emozionanti
forniscono il veicolo ideale per il vissuto di Lanegan, che si tratti
del blues acustico di “You Won’t Let Me Down Again”, di “Time Of The
Season” o della forza guascona di “Get Behind Me”.
Nel 2008 i legami profondi con l’ex Afghan Whigs, Greg Dulli, lo portano al progetto Gutter Twins. “Saturnalia”
è il disco di sedicenti e satanici Everly Brothers, gloriosamente
post-grunge e dolorosamente profondi, alimentati dal piacere condiviso
per il frutto proibito della vita. Lanegan eccelle sull’inno “Idle
Hands” e sulla rumorosa “Bête Noire”, in cui geme alla luna come un
licantropo perso sopra un ritmo intimidatorio.
È inarrestabile, fin
dai tempi degli Screaming Trees, è stato l’aedo di un angolo oscuro e
polveroso del paesaggio musicale americano, i dischi con la Mark Lanegan Band, “Blues Funeral” del 2012, “Phantom Radio” del 2014 fino a “Gargoyle” del 2017 e “Somebody’s Knocking”
del 2019 ne sono testimonianza. Dalla profonda, scampanellante chitarra
gotica di “Harvest Home” ai gelidi synth di “Floor Of The Ocean” che
convogliano Joy Division e Echo And The Bunnymen nel loro momento più
cupo.
Resta il solista “Imitations” del 2013 e i dischi con Duke Garwood “With Animals” e “Mescalito”
del 2018 che chiudono un’irrefrenabile e sterminata discografia qui
appena accennata. “Imitations” è un altro disco di cover con una superba
interpretazione di “Solitaire” di Andy Williams e un brillante
arrangiamento in stile Bacharach di “I’m Not the Loving Kind” di John
Cale, mentre “Brompton Oratory” di Nick Cave è trasformata in un corposo
brano jazz lounge.
Del Lanegan scrittore degli ultimi anni è presto detto. “Sing Backwards and Weep”,
il suo memoir del 2020, è il racconto di un adolescente, delinquente e
alcolizzato, che si disintossica, ma che trova pace effimera solo
dall’abuso di eroina. Un veterano della violenza, sul palco, nella
grande città come nella campagna, nei parcheggi, nelle sale da biliardo e
nei vicoli più bui, un duro viaggio descritto con umorismo nero come il
carbone, come nella fatidica citazione “I could see [Gallagher] as a
kid in short pants on a bright sunny day, gleefully jacking his
minuscule dick while frying ants under a magnifying glass” e rosso di
sangue vivo. L’ultimo disco “Straight Songs of Sorrow”
non è diverso nella sua nuda e cruda onestà. La sua bellezza è la
continua commutazione tra luce e oscurità che a volte sembrano forze
opposte come nell’epica e stridente “At Zero Below” con Greg Dulli e
Warren Ellis.
Pochi hanno suonato come Mark Lanegan. Nonostante le
terribili punizioni che ha dovuto subire nel corso della sua carriera, è
stato uno degli artisti più prolifici della sua generazione. Più scarno
era l’arrangiamento, migliore era il risultato, proprio come il Johnny
Cash di “American Recordings”. Proprio come il suo libro, un’onesta,
personale immersione nella psiche di un artista che lottava sempre
contro gli altri e contro se stesso. E in mezzo al tono crudo e
confessionale un infinito tremito esistenziale che tutto permeava seppur
soffocato da una speranza ormai irreparabilmente ferita.
Nessun commento:
Posta un commento